No, I am not talking about economics this time, not narrowly-defined economics at least. I have attached below some notes of mine (for a local newspaper) on both the recent interview of Tony Blair about the Second Iraq War and the protests against that war. The year was 2003. I used to scrape out a living by working some temporary jobs (flyering, private lessons, building of concert structures) and I would have never thought I would have became an economist. I used to get home late in the night, I could hardly get up in the morning, and my only thought, apart from Her, was the will to smash everything. In short, I was a much better guy.

(Sorry mates. I still have not translated it from Italian, but you know google translator, don’t you?)

 

Non ero un pacifista. Non lo sono mai stato. Ai tempi della Prima Guerra del Golfo, poco più che adolescente, avevo vissuto con distacco l’evento che avrebbe inaugurato l’era dei conflitti mediali. Certo, ben altro era stato il mio coinvolgimento emotivo nella Guerra del Kosovo e nei bombardamento di Belgrado, nella primavera del 1999. Iniziavo allora a comprendere che, dietro le ragioni ufficiali, i conflitti armati combattuti dalle grandi potenze occidentali celano sempre mire espansionistiche o necessità di contenimento di vecchie e nuove potenze regionali. Ecco perché, allo scoppio della Seconda Guerra del Golfo, nel marzo 2003, non ho avuto alcuna esitazione. Il grande movimento pacifista, che partito dalle capitali d’occidente si diffondeva rapidamente anche nelle sue periferie, aveva ragioni da vendere: simonicavitti trattava di una guerra pretestuosa e pericolosa. Pretestuosa, perché nessuna delle ragioni addotte dall’amministrazione Bush e dai suoi alleati a giustificazione dell’intervento militare teneva alla prova dei fatti. Che l’Iraq non disponesse di armi distruzione di massa avrebbe dovuto essere chiaro anche a chi non avesse letto le relazioni degli ispettori ONU o i resoconti dei veterani del primo conflitto. Le bugie confezionate dai servizi segreti di Sua Maestà per conto del governo di Tony Blair suonavano già allora risibili e beffarde. Anche la difesa delle popolazioni curde, in virtù di genocidi avvenuti ad anni di distanza, e favoriti dal voltafaccia del “primo” Bush, appariva del tutto pretestuosa. D’altra parte, a nessuno poteva sfuggire che quel conflitto fosse combattuto anzitutto per il controllo delle risorse energetiche dell’area. Era inoltre una guerra pericolosa, perché il dittatore Saddam Hussein, ex alleato occidentale nella guerra contro l’Iran di Khomeini, garantiva la stabilità dell’area e fungeva da argine contro la diffusione dell’integralismo islamista. Venuto meno il regime laico di Saddam, l’Iraq si sarebbe trovato in preda ad uno scontro fratricida tra la maggioranza della popolazione, sciita e sostenuta da Iran ed Hezbollah, e la minoranza sunnita fino ad allora al potere. Con un rischio di saldatura tra quest’ultima e le cellule del radicalismo wahabita finanziato ed armato da Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar (sovente per conto delle potenze occidentali). Era questo ciò che tentavamo di argomentare con conoscenti e passanti in quei giorni concitati di marzo in cui anche Adria veniva attraversata da cortei studenteschi e manifestazioni di protesta delle principali forze democratiche della città. Ricordo con un misto di nostalgia e di rabbia quel periodo. Di nostalgia, per l’aria di speranza che allora si respirava. Non a caso quel movimento era stato definito la “seconda potenza mondiale”. Di rabbia, per l’enorme occasione perduta e per il senso di impotenza che l’esaurimento di quell’esperienza avrebbe lasciato nel decennio successivo. Né la recente ammissione di responsabilità di Tony Blair vale oggi a sopire quella rabbia. Non solo perché tale ammissione è tardiva, ipocrita e soltanto parziale, ma perché il tentativo recente di destabilizzazione del regime siriano risponde esattamente alle stesse logiche che ispirarono le due guerre in Iraq. Oggi, come allora, la vita di centinaia di migliaia di uomini e donne è segnata dalla volontà di potenza delle classi dominanti occidentali e dalle mire egemoniche delle monarchie del petrolio. Oggi, a differenza di allora, un grande movimento di massa contro la guerra e per un’alternativa di società stenta a manifestarsi. Blair e i suoi epigoni possono, dunque, continuare a dormire sonni tranquilli. Almeno fino a che la Storia non tornerà ad irrompere nelle vite di milioni di studenti e lavoratori occidentali. Nonostante tutto, non ho ancora perso ogni speranza. I mutamenti sociali si manifestano talvolta in modo repentino ed inatteso. Bisogna saperli attendere e farsi trovare pronti. Anche questo ho imparato in quei giorni di marzo.

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