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Anche quest’anno, in occasione dell’assegnazione del premio Nobel ad Angus Deaton, si è riproposta l’annosa disputa sulla scientificità delle discipline sociali e dell’“economics” in particolare. Da una parte vi è la maggioranza degli economisti, i quali assimilano l’economia ad una scienza naturale. Sul fronte opposto vi sono un po’ tutti gli altri, quelli che affermano con veemenza che l’economia non è una scienza. I primi si affidano alla matematica come criterio di scientificità e giustificano i propri fallimenti previsionali recenti invocando la natura stocastica delle crisi economiche. I secondi condannano l’uso del linguaggio matematico tout court e brandiscono le debacle previsionali dei primi come prova inoppugnabile della non-scientificità delle discipline economiche e sociali.

A ben vedere, nessuna delle due posizioni è interamente convincente. L’impossibilità di fornire previsioni quantitative accurate è un problema condiviso dalle discipline sociali con numerosi ambiti di studio di fenomeni naturali. Dalla medicina alla sismologia alla meteorologia gli esempi non mancano. Un discorso analogo vale per gli esperimenti di laboratorio, comunemente utilizzati in alcune branche della microeconomia applicata e per contro di difficile realizzazione in alcune scienze naturali (si pensi all’astronomia). Quanto all’antico dilemma “matematica sì, matematica no” si tratta, di nuovo, di un falso problema. Ogni linguaggio ha i propri limiti (incluso il codice “html” che sto impiegando ora) e quello matematico non fa eccezione. La presa di coscienza di tali limiti dovrebbe semmai condurre ad un uso parsimonioso e consapevole degli strumenti matematici e statistici, e forse alla rinuncia ad un modello onnicomprensivo di analisi dei fenomeni economici. Un pluralismo metodologico che non deve, però, sfociare in relativismo teorico o, peggio, in dadaismo epistemologico. Perché se è vero che la scienza procede per metafore, spesso ispirate a o mutuate da ambiti di studio differenti, è l’immagine di un cosmo ordinato, a-storico, a-sociale e a-conflittuale, evocata dalla teoria economica dominante che va sottoposta a critica radicale.

Civettando con Sraffa, non si tratta cioè di rigettare la matematica, ma piuttosto la visione preanalitica (ossia l’istanza di autorappresentazione delle classi sociali egemoni) a partire dalla quale la modellistica dominante viene derivata. Per contro, a dispetto delle migliori intenzioni dei sui sostenitori, la negazione di qualsivoglia carattere di scientificità alle discipline sociali finisce per rafforzare la visione dominante, giacché ambedue implicano che l’unico statuto scientifico possibile sia quello di scienza naturale. Ecco perché personalmente credo che meglio si farebbe a rivendicare, con Marx, che l’economia è una scienza… sociale, che, cioè, indaga criticamente le leggi (mutevoli) di movimento delle società capitalistiche, rifuggendo sia le pretese di neutralità del pensiero dominante che le fughe irrazionalistiche dei suoi critici più ingenui.

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PS: sì, lo so, procedo a scoppio ritardato, ma il tempo è quello che è. Per stare al passo, dovrei commentare le vicende portoghesi. Solo che non ho molto da dire. Forse perché quelle vicende si commentano da sé. Del resto, chi oggi non vede la natura imperialista e classista del disegno di costruzione dell’Unione Europea (e poco importa se ciò corrisponda o meno al disegno originale dei padri fondatori francesi o ai sogni senili dei leader della “fu” sinistra extraparlamentare) è sciocco o in malafede. Per entrambe le patologie, nessuna scienza ha ancora fornito un rimedio.

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